La “doppia corda” di Bussi
di Vanni Ronsisvalle
Molti amici hanno scritto di Renato Bussi. Ed ognuno, mi pare, è stato catturato come me dalla
tentazione di sceverare subito, nel filo intricato della sua opulenta matassa creativa, il canapo
centrale e più ricorrente: quello che unisce le prime prove meditate, guardinghe degli anni ’50 e gli
esiti incandescenti di questi ultimi. Se ne ricava che l’avventura pittorica di Bussi è tutta esposta
non su un’unica trama (quell’ormai usuale e diffuso giocare di spola che nel suo andirivieni insiste,
nonostante apparenti temerarietà, nell’uniforme, nel sicuro, nello sperimentato), ma piuttosto su due
corde parallele e mai intersecantesi.
La prima corda è “culturale”, avvertita, curiosa, famelica di ciò che è accaduto nel mondo dell’arte
negli ultimi cento anni, almeno. L’altra si srotola nelle pieghe stesse della vita di Bussi, del suo
esistenziale quotidiano, di quell’inquietudine testimoniata dalla sua stessa vicenda umana.
Da qui ne consegue un “autre” (oltre cioè la tentazione/tentativo di inscrivere in un “unicum” la
ricerca di Bussi): accettare una non-sistematizzazione dell’opera di questo artista, perché qualunque
tentativo in tal senso risulterebbe forse artificioso, certo riduttivo da una parte, per quanto possa
apparire vacuamente celebrativo dall’altra.
Prima corda: come avrebbe potuto non fare i conti (a parte gli Impressionisti, la tirannia del
binomio luce-colore – o viceversa –, a parte Cezanne) con Kandinskij, uno come lui che se ne va a
Berlino (dopo Monaco, paese natale del “Blaue Reiter”) per studiare, con genium loci, la teoria dei
colori di Goethe? Risulta così implicito (ed è la “seconda corda”), per indicazione istintiva e non
per spericolatezza intellettuale, che Bussi può piacere, intricare, a diversi livelli:una distinzione,
direi, intermittente non segmentabile nei cosiddetti “periodi”; Bussi non ha “periodi” ma corre
strenue avventure, ognuna con il suo plot interno, con la sua tensione estremizzata sino ad un
epilogo da autoincenerimento. Altro che taccuini di viaggio, annotazioni in margine al
“baedecker”… Vi sono distanze siderali tra la passioncella che si accende alle luminosità di un
paesaggio del Marocco o della Grecia e la combustione cromatica, la grande libertà di invenzione
fantastica, la generosità di quelle opere intitolate “Estate”, “Quattro stagioni” degli anni ’70 o di
quelle più recenti, degli anni ’80 e ’90.
Eppure ecco: di un bellissimo dipinto di appena ieri, un trillare di arancione e di blu battibeccanti in
un connettivo rigoroso di toni (controllati sempre da grande mestiere) rintracciamo la matrice
lontanissima in un’opera deliberatamente informale del 1953. Poco prima e poco dopo, eravamo tra
i pini e le ocre della campagna romana, tra estenuazioni e liricità e “racconto” di paesaggi, di scorci
e di vedute.
E’ forse in questo intersecarsi di suggestioni che altri videro, all’origine, Utrillo e Chagall. E’ certo
però che, appena svoltato il sentiero dell’ultimo crocicchio, Bussi è già lontanissimo da
quell’abbacinamento tutto luce e colore; e persino da quel morlottiano gusto della materia.
E’ certo che gli “echi” culturali sono per Renato Bussi un suo personalissimo pendolo tra coscienza
critica e gusto della citazione. Ed è proprio da questo territorio affollato ed immenso che lo incalza
e che raramente perde di vista, proprio da questo continente popoloso di sibille, miraggi ed altre
fascinazioni, che Renato Bussi spicca il suo volo assolutamente solitario. Il vento che gli sorregge le
ali è ancora quello che circola amorevole ed ottimistico tra le “cose della pittura”, dalle più umili
alle più eccelse. Di quella pittura che si fa con i pennelli ed i colori.