La pittura/gospel di Renato Bussi
di Giovanni Omiccioli
Questa storia di Parigi rischiava di diventare una specie di chiodo fisso, non finiva più: la voce di
Bussi era un solo ritornello, “…voglio andare a Parigi…. devo andare a Parigi ….”. Ma qualche
volta, una ventata di simpatia decide molte cose nella vita di un uomo.
Un concorso andato bene all’Accademia di belle arti dà modo a Bussi di prendersi un premio, che è
poi un viaggio di studio in Austria. Renato se ne parte come un cavallo matto.
Lo ritrovo alcuni mesi dopo in una sala di un caffè di via della croce, a Roma, e non la smetteva più
di attaccare quadri alle pareti, quadri di montagne, praterie, cieli, fiori e nature morte. Colori vivaci,
come anemoni, entusiasmo e, soprattutto, furia di fare. La pittura piace, l’entusiasmo è contagioso. I
quadri, quasi tutti venduti: quanto basta per mischiare i soldi con quelli della nuova borsa di studio
francese e via, in treno per Parigi. Come dire, fine del chiodo fisso.
E’ naturale che i primi giorni Bussi viene accolto con una certa diffidenza: i parigini sono abituati a
vedersi arrivare presunti giovani artisti da ogni parte del mondo, e poi vogliono scoprirselo per
conto loro un artista, prima di accettarlo.
La diffidenza dura poco: hanno capito che questo ragazzo romano sempre sorridente, gentile e
discreto, che sa dire pochissime parole in un francese che sa di romanesco, è pieno di entusiasmo e
di amore per la loro città e non vuole fare altro che dipingere, mettere sulla tela tutti gli angoli, le
vie, le piazzette, le bottegucce colorate. Ed anche quelli del “quartiere latino” alla fine lo hanno
accettato: dopo la diffidenza prima e la gelosia poi, è arrivata la ventata di simpatia, è uno di loro, se
lo sentono nato lì, in quelle stridette infreddolite che gli hanno visto tante volte percorrere con due
tele sotto un braccio e una baguette sotto l’altro, o attraversare fischiettando su una bicicletta carica
di tele e cassette di colori.
In questi paesaggi di Parigi dipinti tra il 1949 e il ’50, ritrovo gli stessi colori di quegli anemoni,
rinfrescati foglia per foglia e giorno per giorno, umidi, squillanti, senza furberie: appena un po’
velati di malinconia, ma vibranti come una musica gospel.
Renato Bussi a Parigi ha detto: “Proviamo”: e se c’è un saporino di altra pittura, va bene, è segno
che l’intelligenza non s’impigrisce. Significa aver gusto, guardare con l’acquolina in bocca certi
frutti così saporiti che si chiamano Vlaminck, Dufy, Cézanne, ed anche nonno Utrillo. Ma
sbrigarsela in due parole con certi paragoni sarebbe troppo facile.
In questi paesaggi più recenti c’è una forza nuova, un impeto senza incertezze, una scelta decisa di
campiture sia nel chiaro che nello scuro, e un colore sempre pulito, felice: paesaggi, guardati con
occhi freschi.
Una pittura che si spiega da sé, rivelando ad un attento osservatore un impianto-base dettato da un
ordine naturale e disinvolto quanto preciso, senza troppe storie estranee alla pittura. Di notevole
interesse, ad esempio, la serie di quadri sulle chiese parigine, così profondamente diversi l’uno
dall’altro e tuttavia così legati in un unico afflato di grande intensità pittorica: i tratti de “L’abside di
Notre Dame” rivelano un rigore di segno che può addirittura essere scambiato per un’asprezza di
pennellata; e il verde e il bleu della pietra de “L’Eglise de St. Etienne du Mont”, striata di bianco
come dopo una nevicata, dà una sensazione di freddo che è esattamente l’effetto voluto dal pittore;
e il “Boulevard Pasteur à Montparnasse”, con quel cartellone bleu infioccato di rosso a far bella
mostra di sé sui tetti scuri fa pensare a una bandiera, e il bel bianco di un’intera facciata fa risaltare
gli altri colori attorno, incastonati come pietre da mosaico.
Un’attenzione particolare Bussi l’ha dedicata alla “Cattedrale di Chartres”, che – egli stesso
racconta – lo ha molto colpito, tanto da dedicarle un profondo studio: nei suoi dipinti, le guglie
ricordano chiaramente le canne di un organo che si slanciano scure verso un cielo bianco, mentre
l’intensa spiritualità fa pensare alla musica sacra di Bach.
Altri quadri, altri grappoli di case, e poi la Senna con i suoi battelli, e ancora strade alberate e
solitarie: ma dove diavolo si ficcheranno i parigini quando Bussi dipinge? C’è da pensare che,
appena verniciate le loro case e le loro insegne, si nascondano per vedere come il pittore se la
sbrighi: ma il pittore non si sgomenta, spreme i tubetti, impasta il colore e accosta il pennello agli
smalti che ricoprono stipiti, muri, insegne, cercando di indovinarne l’esatta tonalità e poi via, a
dipingere e dipingere chilometri di tele.
Ma il vero segreto, infine, è trasformare tutto ciò in cosa viva, e per far ciò occorre quel certo
mastice che salda tutto, quel certo non so che chiamato talento.