CRITICHE

Walter Mauro

Una cosmogonia carica di inquietudine di Walter Mauro A scorrerli uno dopo l’altro, in questa antologica che ne prospetta i momenti come altrettante stazioni di un tracciato sotteso di inquietudine e di implacate verticalità, i dipinti di Renato Bussi riflettono una esigenza così profondamente novecentesca, da innestarsi senza equivoco nella storia stessa dell’avventura creativa del nostro secolo. Quel voler catturare, e far proprie, le più remote insenature di un paesaggio che si addensa nella coscienza fino a farsi luce totalizzante, conduce la riflessione critica verso i poli tematici di un vagabondaggio che, pur situandosi nel contesto novecentesco di cui si diceva, disvela caratteri e notazioni di pura e indipendente singolarità, proprio sul filo di una irrequietezza che dall’ideazione, dal momento virtuale insomma, consegue la sua attuazione nel capriccio inventivo come unico meccanismo di difesa al cospetto della precarietà del reale puro. Ecco: il segno e il sintomo di tale carenza, così avvertita e avvertibile nell’intellettuale del nostro secolo, rintraccia il suo impeto di ribellione nell’esigenza primaria di difendersi dal precario individuando l’ambiguo, l’obliquità del vero e del reale, che cancella il mondo come noi vorremmo che apparisse e lo esibisce come realmente si presenta ai nostri occhi, con l’intero e massiccio grumo di contraddizioni che frantumano in tanti rivoli la contemporaneità. Si è detto più volte che Renato Bussi ha sempre amato evocare fantasmi impressionisti all’interno della sua idea del colore e del paesaggio, e ciò è innegabile. Ma alcuni “distinguo” risultano altrettanto utili e necessari per affermare la capacità di decantazione e la forza di congedo da una scuola e da una tendenza ad aggredire il reale che pur si presenta ancora con marcati caratteri di suggestione. Anche a voler individuare in Kandinskij e nell’espressionismo l’altro punto di riferimento di una ricerca tormentata e dolorosa, proprio nella zona intermedia fra questi due segnali si deve andare ad individuare il tramite, il tempo d’incontro e di scontro di una coscienza dialettica che tutto e ogni temperie intende di continuo rimettere in discussione. Il privilegiamento, il modo di trattare il colore, offre già di per sé una traccia per seguire l’itinerario solitario e autonomo di Bussi lungo crinali e versanti che si riflettono, e al contempo rispecchiano, lo sforzo primario di restituirsi alla vitalità dell’essere dopo che la sintassi decadente ha prodotto l’estatico abbandono. Questa rincorsa dell’uomo ovunque esso vada a celarsi, tra il fogliame di alberi che compaiono di continuo, ossessivamente, sulle rive di un fiume o fra i meandri di una ridente boscaglia come fra le brume di una Londra stravolta dal grigiore del cielo e delle case, disvela nettamente l’ipotesi di una ricerca che tratta e utilizza le forme ben oltre la prassi espressionista come al di là della sintassi di quei rivoluzionari che ribaltarono l’idea tradizionale del movimento, del segno fermo nel tempo e nello spazio. Il “vibrato” che Bussi usa così di frequente nella sua pittura, più che richiamarsi ai “glissandi” (il termine mutuato dal linguaggio musicale può rendere quanto si vuol dire più che ogni altra immagine traslata) tanto tipici e inconfondibili dei Manet, dei Monet, dei Renoir, di Utrillo, va a reperire la sua più accertabile spiegazione nel grande tema del vagabondaggio che nel corso della vita così prolifica lo ha sospinto verso le più remote plaghe dell’universo. Il vagare cosmopolita dell’artista corrisponde ad una cosmogonica geografia interiore che nasconde e al contempo esibisce la ricchezza del paesaggio dell’anima, e allora, quando la simbiosi va a realizzarsi e a conseguire il suo momento terminale nei più segreti recessi dell’io profondo, gli unici cavalli di Frisia utilizzabili per poter difendere il proprio fortino interiore dalle violenze del reale concreto consistono nella fruizione lirica della potenzialità dell’immagine prima ancora che dell’immagine stessa. Si consegue così quella totalità dell’essere che non può ricercare altro da sé all’infuori del punto dialettico che consente l’interlocuzione e l’apertura. Per questa ragione esiste e persiste nella pittura di Renato Bussi la fase determinante della cromatura come esigenza di linguaggio e non come puro e semplice delirio delle forme. L’acquisizione della figura, la sua realtà compositiva, può allora concretarsi nell’incontro verticale fra terra e cielo, nella simmetria disarticolata e angosciosamente imprecisa di un segno pittorico che ha bisogno del suo risvolto deformato e deformante per raggiungere e conseguire la propria sottesa drammaticità. C’è un carico di inquietudine dietro tutto quanto si va dicendo da non sottovalutare, né considerare marginale: una volta respinta l’ovvietà della ricerca, e dopo aver privilegiato il grande tema metamorfico, kafkiano e labirintico, dell’essere e dell’esistere, il “viaggio” assume contorni e delineazioni che perseguono il perfettibile, non il perfetto: alle disperate certezze dell’arte idealistica e romantica, alle vertigini dei paesaggi nebulosi e tempestosi, al tumulto di fiumi regolati dall’io poetante che respingono il piede lubrico della Saffo leopardiana, Renato Bussi modernamente contrappone una solarità paesaggistica tutt’altro che fine a se stessa, non come tramite di un privilegiamento formale, ma come momento drammaticamente ricompositivo di un’ansia profonda di infinito e d’immenso, che gli interstizi precari delle finestre affacciate sul reale concreto non sono in grado di sostenere, perché il peso specifico del cielo misterico può alleviarsi soltanto con il trionfo cromatico di una terra/testimone dei destini dell’uomo.