La Parigi di Renato Bussi
di Valerio Mariani
Che cosa attrae gli artisti a Parigi ancora oggi? Sarebbe molto difficile dirlo, perché ormai il
fascino della “ville lumière” si è , per la maggior parte, “storicizzato”, ed è diventato come un
elemento classico nel quale entrano in giuoco altri elementi storico-letterari, artistici e culturali,
incorniciati da tutto ciò che, invece, si dimostra volubile e scintillante, sempre nuovo e
sconcertante: il cosiddetto “milieu”, cioè l’ambiente inteso come fermento continuo e ritmo variato
di vita.
Moltissimi, dunque, i nostri giovani artisti (e non solo i nostri) che, prima o poi, riescono a
realizzare il viaggio a lungo vagheggiato: ma di tanti, pochi coloro che vi si fermano, tentando
l’inizio di un lavoro e di una vita, e pochissimi, infine, coloro che ne emergono con qualche rilievo:
i più, saggiamente, riportano in patria un buon corredo di impressioni parigine, rinunciando a priori
ad immergersi nel frenetico giuoco delle mostre personali, dei successi, degli insuccessi e,
soprattutto, delle polemiche dell’ambiente artistico parigino.
Tra gli italiani moderni che più saldamente abbiano retto alla lunga esperienza parigina, è De Pisis,
il quale seppe cogliere e assimilare qualcosa di quello “esprit de finesse” che, d’altronde, in lui era
già innato, tanto che nella sua arte il tono dominante non è il gusto impressionistico moderno,ma la
prodigiosa rinascita della pittura “di tocco” del ‘700 veneziano. E, più di recente, altro parigino di
adozione è Severini, oggi uno dei più quotati capisaldi del mondo pittorico internazionale, non per
nulla docente di mosaico all’Académie des Beaux-Arts di Parigi.
Quando, del tutto casualmente, mi accadde d’incontrare il giovanissimo Renato Bussi, egli
frequentava ancora i corsi di studio dell’accademia parigina, comprese, per l’appunto, le lezioni di
Severini: dimostrando già allora che, dopo essersi guadagnato alcune borse di studio per viaggi
all’estero e soprattutto a Parigi, aveva dunque trovato l’aria delle rive della Senna così confacente
alla sua natura nonché ai suoi interessi artistici da decidere di rimanervi, studiare e lavorare con
tutto il suo entusiasmo.
Egli ormai, attraverso le fortunate esposizioni tenute nelle maggiori gallerie parigine, al “Salon de
l’art libre”, come pure in Italia (le più recenti a Roma, a Trento e a Napoli), ci ha dato la piena
convinzione di quel felice raggiungimento di ideali umani e artistici, di cui nessun vero pittore può
fare a meno e che spesso, per circostanze esterne, raramente raggiunge. Del resto, a rivedere quel
che egli dipingeva prima di conoscere Parigi, nonostante l’evidenza di un innegabile talento innato,
si comprende benissimo perché l’aria di Parigi gli sia sembrata la più adatta, anzi la più stimolante,
per giungere ad esprimersi totalmente e in modo del tutto originale.
Per una bizzarra presentazione fatta tutta per me nel cortiletto della sua minuscola casa-atelier nella
periferia parigina, ho gustato uno ad uno i suoi quadri recenti o, almeno, quelli non ancora raggiunti
dall’ormai proverbiale “passione” che giustamente suscita la pittura di Bussi negli amatori autentici.
Tra le tele più caratteristiche di Parigi, spuntava, qua e là, qualche dipinto italiano, ancor fresco di
colore: un grande e solido paesaggio dipinto in Abruzzo, qualche impressione di campagna romana,
una pieve toscana in un prato verde tenero e su tutto circolava un particolare senso di
raccoglimento, d’affettuosa serena nostalgia.
Proviamo, dunque, a dimostrare in che cosa consista l’originalità pittorica di Renato Bussi, questo
cortesissimo e pur disinvolto giovane, che sembra vivere sempre in un ritmo più dolce, intimo e
musicalmente intento di quel che non conceda la nostra vita sincopata.
Protagoniste ciarliere, maliziose, malinconiche, ardimentose, annoiate od ermetiche, delle sue tele
singolari, sono le case della vecchia Parigi, che piacquero un tempo anche a De Nittis, a Telemaco
Signorini, a Boldini, ma soprattutto a Utrillo, che ne dette una indimenticabile e definitiva
interpretazione che sta alla base di quasi tutto il moderno “vedutismo” parigino.
Tuttavia, va subito sottolineato con decisione come l’accostamento delle vedute parigine di Bussi ai
caratteristici angoli dipinti da Utrillo sia un errore del tutto superficiale: si tratta della somiglianza
evidente di quelle vecchie case anonime, eppure estremamente caratteristiche, tanto nell’uno che
nell’altro pittore, ma essi marciano per vie diversissime.
Ciò che ancora non era stato “scoperto” dai pittori in questo curioso conglomerato di abitazioni
pittoresche e colorite come antichi tappeti orientali, era il loro dramma, la loro significazione
umana, la poesia di una simile accozzaglia eterogenea di colori e di forme incoronata dalle
allampanate cappe di camino, fantasiosa popolazione di funghi, sorta all’improvviso, come dopo la
pioggia.
Ebbene, quel mondo di acuta e spesso dolorosa poeticità, l’ha scoperto Renato Bussi, ed è proprio
per questo che, ormai, la Parigi ch’egli dipinge è soltanto “sua” ed ha tanti ammiratori.
Ma, come sempre avviene nell’opera di un vero artista, la sua visione pittorica presuppone un modo
particolare di “sentire”: l’artista mi confessa, infatti, di non avvertire la necessità d’inserire, nei suoi
dipinti, una o più figure nel paesaggio, come nelle vedute di città. In queste, soprattutto, dove i
gruppi di case rendono così bene l’idea dei quartieri parigini, facendo pensare alla fitta,
formicolante popolazione di Parigi, la costante, totale assenza dell’elemento-uomo potrebbe
risultare piuttosto strano.
Bisogna ammettere che, a tutta prima, è così vario e ricco l’altalenare dei tetti aguzzi sul cielo
livido (i celebri “cieli bigi”), è così prepotente la vitalità delle superfici colorate nelle quali s’aprono
(ma più spesso si chiudono) le finestre da “casa di bambola”, che non c’è il tempo per accorgersi
dell’assenza degli uomini.
Nelle tele di Renato Bussi non c’è nessuno: vi regna sovrana la solitudine della domenica o delle
primissime ore del giorno. E tuttavia, questi dipinti sono carichi di vita: è la vita dei colori, dei
manifesti, delle bottegucce serrate, delle persiane blu o color cioccolato. Una tale vita esplode
misteriosa dal contrasto tra l’esiguità dello spazio e queste case che sono stipate come carte da
giuoco: gli uomini se ne sono andati solo apparentemente, ci sono forse, ma vivono nascosti in
quelle strane abitazioni, un po’ gioiose un po’ malinconiche, che fanno pensare alle quinte di
scenari naturali.
Si sente che, da un momento all’altro, essi potrebbero affollare il primo piano del quadro,
affacciarsi alle finestre gesticolando allegri o minacciosi, salutando felici o tristi, come in
un’improvvisa invasione. Ma probabilmente, anche questa misteriosa assenza/presenza degli
uomini in un silenzio apparente quanto ricco di cromatiche musicalità, concorre a costituire il
fascino segreto d’un’arte il cui sottile gusto “metafisico” non ha bisogno di denunciarsi
apertamente, nell’aspetto surreale, ma, come avviene nella realtà, è suscitato dalle cose visibili,
testimonianza di quelle che non si vedono.