CRITICHE

Luciano Luisi

Lungo viaggio fra luce e colore di Luciano Luisi Quando Renato Bussi andò a Parigi per la prima volta aveva soltanto ventidue anni. Gli era capitato per caso sotto gli occhi un bando per una borsa di studio e, senza neppure crederci troppo, lo compilò. Dopo pochi giorni gli venne comunicato che l’aveva vinta per la durata di un anno. Bussi si ricorda ancora l’emozione che provò quando si rese conto di essere davvero nella Ville Lumière, dove era nato l’Impressionismo, di camminare in quelle strade dove l’avevano preceduto De Nittis, Boldini, Modiglioni. E così, giorno dopo giorno, quasi senza accorgersene, restò a Parigi per altri quindici anni, fino al 1965. Come campò? Con ogni possibile lavoro come tanti altri artisti italiani sbarcati, ricchi soltanto di speranze, alla Gare de Lyon (e mi ricordo i racconti compiaciuti dell’ormai parigino Orfeo Tamburi), ma soprattutto dipingendo. Bussi aveva il colore nel sangue e aveva portato con sé la luce mediterranea, l’accensione luminosa di certi cieli romani, e attraverso quella luce guardava Parigi. Un giorno, con due quadri sotto il braccio, entrò in una galleria, la famosa “11 Quai Voltaire”, gestita da un italiano che era diventato molto autorevole, Cesare Silvagni. Silvagni guardò con curiosità quel ragazzo e gli chiese di fargli vedere quei quadri. Il giorno dopo gli allestì una mostra. Fu un grande successo. Era nato un pittore, un pittore che aveva colori nuovi, accesi, insoliti nella frequente paesaggistica parigina. Vi dominavano i rossi che invadevano le case, salivano sui tetti. All’inaugurazione c’era Gino Severini che disse a Bussi: “Ma non ti sei accorto che a Parigi i tetti sono grigi o neri?”. Bastò quell’osservazione, e oltre tutto di un grande maestro, perché il nero estrasse nella sua tavolozza, come una scoperta. E il nero apparve così nelle vedute di Parigi che poi dipinse in quel suo lungo soggiorno anche se, nonostante il grigio e il nero, i suoi quadri continuavano ad essere pervasi dal sentimento della gioia, della gioia di vivere di cui era così ricco in quegli anni della sua fervida giovinezza. Quei paesaggi avrebbero potuto tendergli pericolose insidie per il peso di una folta tradizione figurale discesa rapidamente (nonostante la tappa d’obbligo di Utrillo) verso il piu deteriore cartolinismo, ma divennero invece le pagine di un suo diario in cui servendosi di quelle immagini esprimeva la sua visione del mondo come Moranti con le bottiglie e Mafai cin i fiori secchi. E lo si sarebbe capito piu tardi chiaramente, quando la sua felice inquietudine lo avrebbe portato in giro per l’Europa, a guardare e a “vedere”, come solo un artista sa fare, quelle città così diverse tra loro. Ci saremmo allora accorti che, nonostante quel suo diario ci proponesse i paesaggi di Londra o di Amsterdam, di Atene o di Stoccolma, e che di quelle città avesse padroneggiato quella luce e quall’atmosfera che è di ognuna inconfondibile, ebbene nonostante questo suo raccontarci l’Europa, Bussi in realtà aveva confessato la sua malinconia o la sua gioia, il suo slancio vitale o gli ineluttabili momenti di sgomento che la vita impone. E allora, di fronte a questi quadri di Bussi, non si può non riflettere su quella verità che l’Amiel scrisse nel suo diario, e cioè che un paesaggio è uno stato d’animo. E quasi a conferma, mi sono ricordato di un libro in cui erano stati raccolti dettagli dei paesaggi che facevano da sfondo in quadri famosi del Rinascimento, e che forse non avevano ricevuto molta attenzione, tutta presa invece dal soggetto dell’opera. Ora, isolati come fossero dipinti autonomi, quei paesaggi – con le piante, le montagne, gli alberi, le rocce – suscitavano stati d’animo di malinconia o di grande pace, dovuti a quegli aspetti immutabili della natura, e per contrasto, di fronte a quell’eterno durare, la consapevolezza della nostra precarietà. Anche i paesaggi di Bussi suscitano stimoli emotivi e sensazioni diverse ed hanno il potere di far rivivere ricordi che ci riportano a quelle piazze londinesi, a quel lungosenna, nella solarità di un’estate in Grecia, o nelle nebbie del Nord Europa. E non sono i palazzi, le strade che ci mostra: sono invece i colori che hanno questo potere rievocativo, di presa sull’anima e, dato che caratterizzano i diversi paesi, si potrebbe dunque pensare siano stati “scoperti” dal pittore durante le sue peregrinazioni. Non è così – ci precisa Bussi. Non è andato a vedere di che colore è quel cielo, o l’atmosfera di questa o quella città, ma a fare propri nuovi colori, ad arricchire la propria tavolozza di quei toni. Anche per questo, in quella stagione così significativa del suo iter artistico, Bussi non poteva in alcun modo essere confuso con quei paesaggisti pur bravi che si limitano a restituire le immagini dei luoghi nella loro riconoscibile apparenza. I temi non sono dati dal “soggetto”, ma dal colore, perché, come ha felicemente intuito Maria Laura Giordo, “… il tema non costituisce un punto di partenza ma di arrivo. Il punto di partenza è un colore tematico…”. Se questo concetto era valido per la fase paesaggistica che si è aperta sulla scia dell’impressionismo, negli anni quarantanove-cinquanta, anni che precedono l’esperienza parigina e vedono il pittore, con evidente lirismo, volto a cogliere scorci di Venezia e di Roma e, in particolare, della campagna romana, quella idea portante è ancora piu valida per l’opera innovativa, per quella forma espressiva che Bussi adotterà dagli anni settanta in poi. Senza abbandonare il riferimento figurativo, che comunque emergerà di prepotenza sotto la nuova tessitura pittorica, Bussi sembra aver sentito riemergere le esperienze culturali del secolo, che aveva fatto proprie e sedimentate, in una nuova forma di razionalità creativa, lucida e consapevole, che ha mitigato quell’impeto che aveva caratterizzato il lungo periodo “europeo”. L’impeto della pennellata, voglio dire, materia, sensuale, persino talvolta quasi indipendente dalla volontà del pittore, e che lo ha portato da un primitivo impressionismo (con il dipingere en plein air) ad un piu maturo e consapevole espressionismo, che è la forma pittorica piu vicina e piu rispondente alle inquietudini di questa epoca di affanni. E se la definizione di pittore di atmosfere che piu di un critico gli ha attribuito era valida quando sembrava avere come tematica esclusiva il paesaggio, rispondente peraltro al suo inquieto nomadismo (tanto da chiedersi cosa cercasse, a cosa sfuggisse), quella definizione continua ancora e maggiormente ad essere valida nelle vicende creative della sua maturità e delle piu recenti. E non è mutato, anzi si è fatto piu esplicito, piu essenziale e leggibile il rapporto luce/colore. Ecco come da “Farfalle in volo” del 1980, di un cromatismo acceso, cantato a piena voce (siamo nell’anno di una grande e fortunata mostra a Chicago), la tavolozza si stempera verso tonalità piu basse che trasmettono le suggestioni delle ore crepuscolari e della notte. Si vedano qui opere come “Rientro dal cielo” dell’ 84, e “Nocturne” dell’85. In questa nuova fase del suo lavoro, Bussi sembra essere tornato agli amori della sua prima giovinezza: i futuristi, prima di tutti, grazie anche alla frequentazione di Gino Severini (“è la sola vera avanguardia”, dice) e i cubisti, soprattutto nelle grandi personalità di Boccioni e di Braque, che ha studiato a lungo. Dai futuristi gli proviene il senso del movimento, il movimento dei piani pittorici, questo fluire come di un vento che avvolge le immagini. Dai cubisti ancor piu la scomposizione, non già o non soltanto dell’immagine che è decaduta come tale nel suo interesse, ma degli spessori, degli strati della luce. Ma non si deve neppure disconoscere una piu aperta propensione non tanto alla pittura astratta nel suo significato storico, ma verso l’astrazione. E del resto, si guardino oggi, a distanza di anni, certi paesaggi jugoslavi, o spagnoli, materiali di puro colore, dove il soggetto scompare sotto le grandi macchie quasi convulse, o meglio ancora si guardino certi paesaggi italiani del ’68, come visti dall’alto (che ricordano non solo la lontana lezione di Kandinschij, che Bussi ha amato, ma anche quella di Mondrian), per capire come già la sua pittura si muovesse in quella direzione. Presentando una mostra già nella “svolta” del decennio successivo, scrivevo – e credo che queste parole siano ancora valide per il lavoro attuale – “Sembra che la libertà trovata (o ritrovata) gli generi una incontenibile felicità inventiva. I quadri realizzati fra il ’78 e il ’90, dichiarano fin dai titoli questo progressivo crescendo nella pura astrazione cromatica che tuttavia nasce dalla realtà della natura, dalla sua smisurata e inimitabile fantasia creatrice. Bussi le si pone a fianco, a gara; indaga ormai negli strati profondi della nostra sensibilità, vuole esprimere l’ineffabile. Insoddisfatto delle parole vuole cercare la musica”. E qui è doveroso dire che, accanto alla sua cultura letteraria, della quale molti scrittori gli hanno dato testimonianza, Bussi ha una profonda conoscenza della musica classica che accompagna sempre il suo lavoro nello studio. Ecco, in questa ricerca spasmodica della musica nel colore, il pittore adotta nuove e sempre piu avventurose tecniche, segno della sua magistrale padronanza del “mestiere”. Come ieri aveva lavorato “a spatola”, oggi sperimenta, con grandi esiti che portano il colore alle piu alte vibrazioni, i rulli, gli spruzzatori, e ne nascono composizioni in cui sembra che le immagini emergano da una cortina di veli, evocate, evanescenti come in un sogno. Nascono così certe visioni di donne, che ripropongono l’eterno femminino non nella crudezza in cui viene offerto ai piu facili istinti sia dal cinema che dalla TV, ma nel suo irraggiungibile mistero. Ma non è il solo mistero che affascina Bussi. La sua ricerca lo porta ad alzare gli occhi e la mente al cielo, a porsi domande sul cosmo che l’uomo ha cominciato a violare. In queste nuove composizioni astratto-geometriche, non solo è leggibile l’impianto grafico che fa da base, ma qualche volta addirittura, come in “Colori in formazione”, e “Tra sogno e ricordo” del ’96, un intrico di linee forma una rete a larghe maglie che sovrasta il dipinto, quasi a voler distanziare con la sua rigidità l’emozione ancora viva del colore. Un grafismo che richiama la nostra attenzione sul lavoro di Bussi quale eccellente disegnatore e incisore che ha accompagnato con le sue interpretazioni i testi di molti poeti suoi compagni di strada. Un osservatore superficiale che percorra in questa mostra il viaggio artistico di Renato Bussi dagli anni cinquanta ad oggi potrebbe forse stupirsi, dovendo attribuire ad uno stesso autore i paesaggi parigini (i piu figurativi fra gli altri) e le opere dell’ultimo decennio da “Fantasia di luce e colore”e “Quando le cose prendono forma” del ’92, a quel prezioso “L’alba: nascita del colore” che, contrariamente a quanto annuncia, è tutto risolto in una gamma di bianchi e di neri, per giungere a quegli “Attimi di tempo fra incroci di notti” del ’98, dove invece sono le tonalità del blu a dominare il quadro che misura 100 cm. per 120. E cito questa misura per rimarcare, ed è un fatto importante, come la produzione piu recente sia tutta di tagli molto maggiori di quanto non fossero quelli delle stagioni precedenti, quasi ad indicarci un anelito a far grande, a dilatare lo spazio proprio perché la luce vi campeggi, vi circoli piu liberamente. Quadri, questi ultimi, dove il colore giunge ad impennate esplosive, ma come se un canto, invece che ascoltato direttamente dalla voce che lo produce – in diretta, potremmo dire, per usare una fraseologia ormai corrente – giungesse da un’eco magica, piena di risonanze e di suggestioni. Quadri che sono un inno alla luce, del piu raffinato Bussi, giunto alla quintessenza della sua vocazione, depurata, sublimata, in cui il presente e il passato si fondono a dirci forse che la realtà dell’arte è fuori, oltre queste dimensioni, e che il tempo si fa memoria ed è la memoria a portare per mano l’artista come il poeta. Vorremmo dunque dire a quel visitatore perplesso: è lo stesso dialogo con la luce che lega i tempi di questo artista, una continuità che va cercata nella profonda convinzione che l’ha sempre accompagnato fin dalla giovinezza, quando già aveva capito che “il colore è il solo impeto e il solo fine, e ne conseguono le forme che ad esso cedono, gli si adagiano, mutano, diventano pretestuose, emblematiche, inventate sempre”. Nessuno iato, dunque, fra gli inizi in bilico fra impressionismo ed espressionismo, e questi ariosi approdi. Lui stesso lo conferma: “Non vi è differenza fra la pittura del primo periodo e quella di questi ultimi anni. Una volta, l’emozione, e quindi l’ispirazione, mi veniva dall’esterno, oggi mi viene da dentro”. C’è in queste parole tutta la grande rivoluzione novecentesca: l’immagine concreta, reale, della natura, come è stato sempre in tutti i secoli precedenti, viene sostituita dall’immagine mentale, ovvero dal linguaggio stesso della pittura: il concetto, dunque, prima della forma. In molte scomposizioni e ricomposizioni di Bussi, in quel suo evidenziarne i piani, c’è – è vero – la lontana lezione del suo maestro Severini, ma reinventata, portata dentro la sua vibrante sensibilità che ci viene incontro e ci persuade e ci prende. Lontani i paesaggi che sono così inconfondibilmente suoi, lontano quel vagabondare sulla spinta di un giovanile fervore, ma uguale e intenso il viaggio della sua mente e identico il principio secondo il quale dipinge “per vedere le cose che non si vedono”. Uguale la sua accesa fantasia creativa e, su un filo che non si spezza, la sua poesia.