Le “carte di punta” di Renato Bussi
di Alberto Frattini
Scrive l’amico poeta Adriano Guerrini: “Poeti nuovi, finti pazzi, pavoni, servi dei tempi, anch’io
esperimento, ma con saggi e guerrieri”. Versi che, con concisa energia, riflettono l’ingenita
opposizione all’ipersperimentalismo deflagrato nella nostra poesia degli anni ’60 e che trova, in
parallelo, significativi riscontri nell’area dell’invenzione pittorica: per la quale si registra in questi
anni un sintomatico ricupero delle radici artistiche e culturali della tradizione, in una prospettiva che
– pur non rinunciando alle più vitali conquiste dell’età che direttamente ci precede – è ormai post-
moderna.
Qual è, in tale angolazione, il senso che può cogliersi dall’esperienza pittorica quarantennale
propostaci da Renato Bussi in questa sua “antologica”? Può aiutarci a chiarire il suo complesso
itinerario quanto l’artista romano affermava in un’intervista di poco tempo fa, sottolineando il
fulcro dell’interesse cromatico nella sua pittura: per il pittore, “ è il movimento interiore delle cose
che il colore deve ritrovare … e poiché l’artista d’oggi è soprattutto ispirato da ciò che vi è di più
nascosto nella natura, la funzione del colore diviene per la pittura estremamente vitale, in quanto
non cosituisce soltanto un mezzo per realizzare la forma, ma è utilizzato per giungere all’idea di
infinito, per estrarre la bellezza più segreta delle cose, per ritrovare la verità del pensiero originale”.
Indicazioni importanti per addentrarci nell’intuizione fondamentale che Bussi ha della sua arte
come strumento di conoscenza totale, in cui l’intera realtà si rivela.
Già dalle considerazioni sopra affacciate può intendersi come l’esperienza pittorica di Bussi risulti
radicata nella sensibilità e nella coscienza critica del “moderno”: una tradizione -- dal
Rinascimento italiano ai grandi impressionisti d’oltralpe, dai futuristi ai cubisti, agli espressionisti –
liberamente ripercorsa nel suo tirocinio formativo, dove il senso istintivo dei valori cromatici fa
premio sulle ricerche di segno propriamente tecnico-scientifico.
Ma neppure dovranno trascurarsi altri interessi d’ordine specificamente culturale: dalla
rimeditazione della goethiana “teoria dei colori” alla particolare attenzione riservata a Kandinskij,
che nel “Saggio sullo spirito dell’arte” del 1912 avanzava considerazioni fondamentali per intendere
il processo di metamorfosi dall’oggettualità figurativa all’astrazione. Né vanno ignorate certe
suggestioni colte dal pittore romano nel teosofo austriaco Rudolf Steiner, fondatore di quella
antroposofia che, potenziando attraverso l’iter iniziatico l’ispirazione e la concentrazione interiore,
esercitò influssi notevoli su uno dei più dotati novatori del nostro parnaso protonovecentesco,
Arturo Onori.
Anche maestro d’incisione si era rivelato da tempo Bussi, come testimoniano le numerose cartelle
di acqueforti e acquetinte policrome da lui dedicate all’interpretazione di alcuni poeti
contemporanei: uno scavo dell’estro e del sentimento nei labirinti dell’immaginazione risolta in
parola poetica. La quale – per richiamare il pensiero del pittore dalla citata intervista – “ … è come
la musica: quando le note ci prendono, il ritmo ci coinvolge, ci trasforma. Tempo, spazio, segno,
colore, armonia: è qui che si gioca, nei vari modi e ai vari livelli d’invenzione, il ricupero
globaledell’uomo”.
Già nel 1952 – seguo gli sviluppi della pittura di Bussi da oltre trent’anni – sottoneavo in lui il
“poeta del paesaggio”, cogliendo in certe sue evocazioni di Parigi la facoltà di compenetrare un
arioso e fresco gusto del concreto con la lievitazione derealizzante, l’inesauribile meraviglia del
reale scoperto con occhi nuovi. Una direzione di ricerca che si arricchirà, negli anni ’50 e ’60, in
un’accentuazione di registri quasi fiabeschi, sul filo di una fantasia magico-onirica che si dipana nei
numerosi paesaggi del pittore romano alla scoperta dell’Europa, in una caleidoscopica rifrazione in
cui vibrano radici antiche e modernissime di un affascinante mosaico di civiltà,
Nelle opere più recenti di Bussi, la sua arte continua a svolgersi e a maturare fuori da tentazioni
manieristiche o ambiguità di mode effimere. Il “moderno” di Bussi è sempre nella sua ferma
coscienza del primato della fantasia sulla mimesi, di un’inquieta sensibilità espressionistica su un
piacevole e facile interesse “vedutistico”.
Ma ecco, già in una tela del ’70, la natura vegetale geometrizzarsi in un fluido gioco di verdi
punteggiati di lievi accensioni rosa-viola, a contrasto, in basso, con ocra e terre bruciate, in alto con
l’aereo aggregarsi, a fasce, incastri, dissolvenze, di biacche, gialli, celesti, con sensazioni di levità e
freschezze d’acquario.
Così il referto naturale e i dati dell’oggetto possono tradursi in fiabesca affabulazione cromatica,
dove il colore altra funzione non ha che dar luce e trasparenza alla visione interiore, alle occasioni
del sogno o del miraggio-emblema: una “Farfalla” del 1975 – luce d’oro screziata di verde e azzurro
con rossi filamenti riflessi dallo sfondo sangue-fuoco – può farsi naturale araldica di un fragile
incantesimo a filo di olocausto.
Osservando un “carro di fieno” di Monet, Kandinskij si convinse che “l’oggetto non poteva essere
più a lungo un elemento indispensabile per un dipinto”. Nel cono di riflessi di quella intuizione,
capitale per gli sviluppi dell’arte moderna, Bussi sviluppa il processo di derealizzazione e
disoggettivazione dell’invenzione pittorica, componendo l’oggetto naturale – come fa in una
“Natura morta” del 1981 – in un delizioso gioco di arabeschi cromatici in cui prende vita un’iridata
effervescenza d’erbe e di corolle, di sèpali e di pòllini.
In certe sue tele degli anni ’80, affiora un estro onirico che può richiamare certe impennate di
Chagall, ma come sospese e composte in un’aura di irenico sortilegio. Ma in composizioni più
recenti, erompe una sorta di caosmotico scandaglio sulle più segrete allegorie del visibile, fra tempo
e oltretempo, gestualità spaziale e implosione materico-cromatica, dove la realtà non è più che il
potenziale onirico di se stessa: si vedano “Notturno spaziale”, “Giuoco di stelle”, “Tempo del
sogno”.
Sempre al di fuori di gruppi, scuole o correnti, il pittore romano è rimasto coerente con la sua idea
dell’arte che inesauribilmente si nutre della coscienza e del sentimento dell’uno e del molteplice,
stupenda demiurgia combinatoria entro cui la natura lievita, proiettandosi, per infinite osmosi, nel
misterioso intreccio di avvisi, scoperte, presentimenti interiori. Le carte su cui punta Bussi – anni
’80 in poi – sono il colore, lo spazio, la luce, la fantasia, il movimento. Su questa linea, l’arte del
segno cromatico sembra più veloce – come aveva intuito Jean Dubuffet – dell’arte della parola
nell’adeguarsi e concorrere alle metamorfosi del mondo: il post-moderno è già dentro la luce
enigmatica del nuovo modello di vita e di realtà che attende l’uomo nel terzo millennio.