CRITICHE

Renato Civello

Bussi e il colore biomorfo di Renato Civello Se Renato Bussi fosse vissuto a Monaco di Baviera, nel fermento estetico rivoluzionario che precede di poco la prima guerra mondiale, avrebbe certamente sottoscritto le proposte del Blaüe Reiter (Il cavaliere azzurro), il movimento che prende nome da un omonimo dipinto di Kandinskij e si afferma con l’apporto determinante di Marc, di Kubin e di Munter. Significativo, per molti riguardi, che alle teorie esposte da Kandinskij nel libro “Sullo spirituale nell’arte” si sarebbero più o meno direttamente allineati artisti francesi come Derain, La Fresnaye, Vlaminck, ma anche Braque e Picasso, e poi la Brücke di Dresda e la Nuova Secessione berlinese. Il canone kandinskiano della “necessità interiore” persiste, come impulso radicale, al di là della distinzione delle poetiche, ma con la volontà preliminare di distruggere i paradigmi borghesi dell’accademismo per sostituire intimazioni assolute ed immediate alla pluralità spesso gratuita della sperimentazione formale. Il ciclo evolutivo della produzione pittorica di Bussi, che accampa sulla eredità impressionistica e su qualche suggestione fauve un senso quasi orfico del colore (e qui la linea esemplare di un antinaturalismo non dissacratore passa per gli studi goethiani sui rapporti colore-luce-sensazione e per il cromatismo “simultaneo” di Robert Delaunay), è segnato tutto da questo consenso d’ordine ad un tempo patetico e speculativo: il suo animo nomade, che lo ha portato dal bianco calcinato della Grecia alla tenerezza musicale dei paesaggi di Bretagna, dalla Spagna estrosa ai silenzi della Svezia e al vaporoso grigio londinese, ha avvertito preferibilmente il misterioso linguaggio che vive sotto le avventure della scorza e riconduce per mille vie ai presagi solitari della coscienza. Anche Bussi, come il pittore moscovita, potrebbe affermare che “è il desiderio interiore del soggetto a determinare imperiosamente la forma”. E in effetti credo che nessun dipinto di questo artista dalla formazione indubbiamente europea ma dal timbro mediterraneo e latino venga meno alla esigenza di una identità appassionata e libertaria, strappata alle secche dell’assuefazione e all’aridità del visualismo descrittivo. Persino in certo arioso paesismo di chiara matrice realistica che sembrerebbe essere dominato, a prima vista, dal bisogno strutturale, come in molti quadri ispirati dalla Bretagna, la chiave di lettura non è nel contesto epifanico, ma nella logica interna del dipinto. Si commetterebbe un macroscopico errore di valutazione se ci si fermasse al concetto berensoniano dei “valori tattili”; e ancor più se si tenesse presente, come parametro risolutivo, la filologia contraddittoria dello sperimentalismo. A parte il possesso di un bagaglio linguistico che è l’energia sotterranea e coordinatrice di qualsiasi “fuga” dall’occasione, il mondo di Renato Bussi vive nel segno di un suo urto emozionale e di una eticità di fondo: gli sono stranieri gli accadimenti fatui, la cronaca degli aspetti che impoverisce e svuota di significato la storia profonda dell’io. Al positivismo della “forma bella” degli herbertiani e all’astrazione ideale dell’ hegelismo Bussi contrappone una sua verità indivisibile, che riflette stagioni esistenziali di volta in volta rivelate in una sorta di folgorazione dell’atto creativo; e allora non contano più le valenze spazio-temporali, le vicende infinite del flusso fenomenico, ma solo la medialità spirituale di tutti i termini dell’espressione. La facoltà di leggere dentro le cose, che appartiene al creatore di razza, al poeta senza predicati assai più che allo scienziato, è favolosa e talvolta drammatica sospensione del sentimento: una impressione lagunare di levità turneriana, del ’60, col pigmento che si sfrangia in minuzzoli d’atmosfera, ha la stessa latitudine di genesi e di approdo di una “ Farfalla” sontuosa del ’79 o di un “Gioco di stelle” o della scandita sinfonia delle quattro stagioni con le rarefatte albescenze in bigio di un “ Inverno” incredibilmente esistenziale.E’ il cuore, tramato di rapimenti dialettici, che cerca risposte sconosciute. Perciò Renato Bussi, simbolista figurativo o simbolista astratto, finisce con l’essere aristocraticamente controcorrente nell’epoca delle più ambigue certezze; e gli si addice la fede ansiosa di Ruskin, l’esteta cristiano che dietro la cortina delle apparenze avverte il peso dell’immutabile cifra: “In questo universo di astri splendenti, di trasparenze che abbagliano, sempre, quello che ci tocca di più, è l’invisibile”. La pittura di Bussi nasce, dunque, a filo di miracolo. E’, nello stesso momento, crisi costruttiva ed entusiasmo. Interrogazione ed impulso. Indugio contemplativo e appropriazione indefinita. Dopo l’ampia fase realistica, in cui vibrano allusioni premonitrici, le memorie sono recuperate come sintesi scampata ad un deserto di cenere; e l’emozione guida gli itinerari inconsci del pensiero. Dovunque, dentro il labirinto della immagine, il sospetto di una “diversità” esaltante. I piani che si scompongono in una specie di cubismo reinventato, le prospettive che si dilatano in ritmi serrati, la gamma cromatica che si dissolve e si riconnette, la stessa ellisse dell’impianto grafico, concorrono a determinare il sortilegio: l’aria che si respira è, contro ogni parallelismo di scuola, quella di una vendemmia metafisica. Così, porterebbe assolutamente fuori strada definire con disinvoltura Renato Bussi nient’altro che un colorista. Forse gli potremmo addossare, come qualcuno fece con Albert Parquet, l’etichetta di un “fauve pentito”? Egli non è mai pervenuto alla reintegrazione della forma in quanto orditura esterna di richiamo; e però il colore, come le relazioni evocative del primo periodo, non è mai un fine, ma soltanto un mezzo. E si consideri poi che egli dipinge senza preordinati diagrammi, come fosse in stato di levitazione; il sottilissimo filtro che impone ed esclude, che equilibra ed amalgama, è quello dell’istinto più che della cultura: un istinto superiore che vanifica gli sforzi non mai del tutto esaustivi dell’intelletto, ma che gli dona in compenso una virtù gnoseologica compendiarla, fatta di trasalimenti e di percezioni sovrasensorie. Basta osservare, per convincersene, un’opera come “Ala di tempo”, del ’76: la vela immateriale che migra nell’infinito, le proiezioni giganti sull’orizzonte opinabile della terra, il rosaviola, l’azzurro ed il fucsia non sono un teorema della mente ma una monade liberatoria. E’ il tutto che si condensa, attraverso una partecipata magia, nella irrazionalità del congegno compositivo e delle scelte cromatiche. C’è qui, e in molte altre opere, il senso di una energia primordiale che riguarda l’essere avulso da tutte le sovrastrutture, da tutti gli idòla che ne corrompono l’innocenza. Crollano i miti e resta l’eroismo del sentirsi, finalmente, l’ungarettiana “docile fibra dell’universo” che accoglie in sé tutto il dolore e tutta la meraviglia del divenire. Quelli della natura sono schermi illusori: è necessario superarli per scoprire il volto segreto della vita. Ma esplorare con spasimo la nostra destinata consistenza, anche senza risposta, nell’ebbrezza di un colore che s’illumina d’indistinti richiami, è già straordinario privilegio. Potremo concludere allora con Rilke, davanti ai quadri di Bussi: “Questa non è una storia, è un sentimento”.